Otto camere di tortura in 21 mesi: geografia di una prigionia

‘… Ci dicevano di continuo: ‘Faremo uno scambio di prigionieri, vi stiamo portando lì…’. Mi hanno trasferito otto volte, facendomi credere che si trattava di uno scambio. E invece era solo ‘un passaggio di mano’… Non appena ci scaricavano dal cellulare cominciavano a picchiarci’.
Yryna Skachko17 Luglio 2024UA DE EN ES FR IT RU

Ілюстрація: Марія Крикуненко / Харківська правозахисна група Иллюстрация: Мария Крикуненко / Харьковская правозащитная группа

Illustrazione: Maryya Krykunenko / Gruppo per la tutela dei diritti umani di Khar’kiv

Roman Kryvulja, operatore militare di un centro di radiotrasmissioni ed ex combattente ATO (Operazione Anti Terrorismo è il nome dato dalle forze pro-Kyiv alla guerra in Donbas del 2014-18 N.d.T.), ha trascorso un anno e nove mesi in stato di prigionia.

“In prigione desideravo soltanto e soprattutto avere la pancia piena”, ricorda. “Avevo voglia di dolce, tutto era insapore”.

Ci racconta la sua storia mentre lo stiamo riportando a casa, nella regione di Charkiv, dall’ospedale di Dnipro, dove era finito dopo lo scambio. Quando è iniziata l’invasione, Roman non è al lavoro, ma a casa sua, a Lyptsi, e non fa in tempo a raggiungere la sua unità: il suo paese si ritrova occupato sin dalle prime ore dell’offensiva.

Lyptsi, Čerkas’ki Tyšky, Strileča

“Per timore che scoprissero che ero un militare cercavo di non dare nell’occhio. Giravo in abiti civili”, ricorda.

Roman e la sua famiglia si erano trasferiti a Lyptsi alcuni anni prima. Quando non era al lavoro, Roman trascorreva il tempo con suo figlio. Non era ancora riuscito a fare conoscenza o amicizia con qualcuno del luogo.

In mani nemiche è caduto per puro caso: stavano cercando un altro soldato che — forse — abitava nell’appartamento accanto.

“Non sono un militare” gli faccio. E loro: “Da queste parti vive un soldato che si chiama P.: se non sei tu è qualcun altro”. In seguito è venuto fuori che la mia vicina di casa era sua suocera, e che perciò avrei dovuto conoscerli. Ma non vivevo a Lyptsi da molto e non l’avevo mai visto.

All’inizio Roman viene tenuto in un capanno nel vicino paese di Čerkas’ki Tyšky. In seguito lo spostano in un grande scantinato. Roman suppone che si trattasse dell’ospedale psichiatrico di Strileča. Con lui in quella camera di tortura sono rinchiuse anche altre persona. Uno di loro resta ammanettato per tre giorni.

“Aveva le mani nere, ormai, altro che livide. Con lui c’era una ragazza che piangeva a non finire: “Vi supplico, allentategli le manette, vi prego, non sente più le mano!”, ma niente, restavano impassibili”.

Dopo alcuni giorni di tortura, Roman viene improvvisamente rilasciato, ma gli requisiscono tutti i documenti,.

“Mi hanno riportato a casa. E lì uno di loro fa: “Ti do un giorno di tempo per portarmi P. Se non lo trovi, ti riportiamo dentro”. Seppure avessi voluto fuggire, senza documenti a un posto di blocco mi avrebbero fucilato seduta stante. Ho chiesto ai vicini. Dicevano tutti di non conoscere quel soldato”.

I russi sono tornati quella sera stessa.

“Arriva un po’ di blindati, le ‘Tigri’, ne escono dei russi armati fino ai denti. Coi mitra e i giubbotti antiproiettile. Tirano fuori un foglio: “Questo sei tu?” Guardo, era la mia tessera di combattente dell’ATO con tanto di foto. Le cose sono precipitate in fretta, mi sono piombati tutti addosso. Ho cercato di opporre resistenza, ma mi picchiavano tutti… Mi hanno fatto entrare in casa, l’hanno rivoltata da cima a fondo, hanno preso il notebook di mia moglie, i telefoni, gli alcolici, tutto quello che gli capitava a tiro. Mi hanno legato le mani dietro la schiena, mi hanno bendato, scaraventato in macchina e siamo partiti. Poi ci siamo fermati. Mi hanno fatto scendere, “Muoviti!”, mi dicono. Li sento che ricaricano i mitra, che tirano fuori le pistole. “Prega! Prega in nome della guerra. La Federazione Russa è autorizzata a fucilarvi tutti senza processo!”, mi fanno. Così predicavano, e intanto caricavano le armi. “Hai pregato?”. “parla meno e fa’ quello che devi”, gli rispondo. E aspetto. E intanto penso se mi arriverà un colpo in testa o tra le spalle. Silenzio. Poi quel tale mi si avvicina, mi afferra per il bavero, mi spinge via e mi sbatte contro il blindato, mi carica su e dice: “Cos’è, stronzetto, non te la fai sotto, non hai paura di essere fucilato?” .“Perché dovrei? Chi vi impedirà di farlo?”.

Hoptivka

“Hoptivka è stata in assoluto la parte peggiore di quanto ho vissuto. Se mi avessero ucciso, a Hoptivka, si sarebbero sbarazzati del cadavere e tanti saluti… A Hoptivka mi hanno spaccato le costole, mi hanno torturato con le scariche elettriche di vecchi telefoni da campo. A ciascuno la sua tortura... A uno avevano attaccato gli elettrodi alle dita, a un altro al naso, alla lingua, alle orecchie. Cosa può arrivare a concepire una mente malata! Una volta mi hanno portato all’interrogatorio, hanno iniziarono subito a picchiarmi, poi mi hanno messo contro il muro e uno mi ha detto che, nel caso mi fosse saltato in mente di crepare, aveva già pronta una siringa di adrenalina per rimettermi in piedi. Non sarebbe stata la prima volta, sapeva come usarla.

“Così riprendi i sensi e proseguiamo con le torture”.

Mi chiedevano come era strutturato il nostro esercito. Ma io come potevo sapere quali forze erano dislocate a Charkiv? Potevano essere una miriade. Mi chiedevano se conoscessi qualcuno del servizio di sicurezza (SBU) o di frontiera”.

Dopo quelle torture, Roman decide di ammettere di essere un militare, sperando così in uno scambio di prigionieri.

“Pensavo che altrimenti mi avrebbero seviziato fino ad ammazzarmi, che non avrebbero mai creduto che vivevo a Lyptsi e non conoscevo nessuno. Hanno smesso immediatamente di torturarmi. Mi hanno riportato in cella e non mi hanno più toccato per una settimana”.

In seguito, però, gli occupanti decidono di ‘promuoverlo’ maggiore dei servizi segreti speciali.

“Quanti anni hai?”, mi chiedono. “Quasi quaranta”, rispondo. “Istruzione?”. “Superiore…”. “Quindi dovresti già essere un maggiore!”. “No, sono solo un operatore del centro radio ricevente…”. “Addetto alle comunicazioni?”. “Sì…”. “Sei stato in Georgia?”. “No, sul passaporto ho solo il visto della Polonia…”. “Senti, detto tra noi, faccio bene a presumere che sei un agente speciale?”. “Presuma un po’ quello che vuoi!”. “Bene, non ho altre domande!”.

Accampamento, Regione di Belgorod

In seguito Roman Kryvulja è stato condotto in un campo per prigionieri ucraini a Šebekino. Lì lo hanno interrogato, ma senza torturarlo.

“Eravamo chiusi in una tenda senza poter guardare fuori. All’inizio erano loro a portarci il cibo. Passata una settimana, iniziarono a farci uscire per andare a mensa: gruppi di dieci o venti persone per volta, in fila indiana. Vietato alzare la testa. Mani dietro la schiena. Occhi bassi. Per gli interrogatori ci spostavano in un’altra tenda. Veniva gente della procura militare e dell’FSB. Non abbiamo subito torture. Durante la detenzione eravamo sottoposti a visite mediche e, all’occorrenza, curati”.

Roman è rimasto in quel campo una decina di giorni.

Centro di detenzione preventiva di Staryj Oskol

“Quando sono arrivato a Staryj Oskol ho capito cosa intendevano con ‘maggiore e agente speciale’. Quante ne ho prese… “Ti taglio le dita e le mando a tua moglie una falange alla volta” mi diceva uno, “la faccio uscire di senno prima che finisca di ricevere tutti i pezzi”. Mi ha picchiato per mezz’ora. “L’addetto alle comunicazioni arriva tra un paio di settimane: se non gli dici tutto quello che gli serve sapere, andrà proprio come ti ho detto! ”. L’ho aspettato per diversi giorni, quel tizio, in attesa che iniziassero a smontarmi pezzo per pezzo. Quando è arrivato, mi ha chiesto di tutto e di più: dove si trovava la mia unità, di quante persone era composta. Come facevo a saperlo, non le ho mica contate… Quindi hanno scritto qualcosa e io l’ho firmata. Di cosa si trattasse esattamente, non ne ho idea. L’hanno coperta con un altro pezzo di carta e mi hanno detto: “Firma qui”.

Donskoje, Regione di Tula

Trascorsi alcuni giorni, i prigionieri vengono di nuovo trasferiti. Gli ucraini speravano di tornare a casa.

“Abbiamo viaggiato per ore. Credevo fosse fatta, che ci avrebbero scambiati. Siamo arrivati a un campo di volo, qualcuno ha detto: “Il nostro aereo dovrebbe atterrare alle tre”. E lì ho pensato: “Grazie a Dio, o ci portano in Turchia oppure a Kiev”. È arrivato un cargo. Il volo è durato un’ora. Atterriamo e tutto ricomincia: altri furgoni cellulari e altre forze speciali. Grida, imprecazioni e i continui: “Muoversi!”. Arriviamo a Donskoje. Fanno in tempo ad aprire il furgone che mi afferrano per il bavero, mi scaraventano fuori e iniziano a riempirmi di calci. Poi mi chiedono le generalità e mi hanno spinto a pedate tra la folla. Io corro e quelli mi spingono pungolandomi con dei bastoni o altro, finché non finisco catapultato nel cortile per l’ora d’aria. “Accovacciato!”. Mi accovaccio. Resto in bilico in quella posizione dalle nove di sera alle cinque del mattino, al freddo. Alla fine le gambe non mi reggevano più. Poi ci trascinano dentro: “In ginocchio e faccia al muro!”. Mi butto in ginocchio e lì rimango per un’altra mezz’ora, mentre mi portano la divisa da detenuto e i medici si segnano qualcosa. Mi fanno le fotografie. Mi fanno spogliare nudo. Poi salgo al piano di sopra, mi danno delle mutande di 10 taglie più grandi. Mettile, e anche la divisa. Dico: “Se anche la allaccio, non starà su!”. Uno mi fa: “Rimboccati i pantaloni nelle mutande”. Mi spingono in cella a colpi di taser e di bastoni. La cella si apre, ci entro di volata. Attraverso la soglia di sbieco, perché la porta ha le catene e si può passare solo di lato. Mi spingono in quello spazio ristretto a tutta forza. Cinque-dieci minuti e vola dentro un altro corpo. Ne passano altrettanti e tocca a un altro corpo ancora; e così via, finché non ci ritroviamo in 17, stipati lì dentro”.

Il penitenziario di massima sicurezza nº1 di Tula, situato nella città di Donskoje, è considerato uno dei più brutali. Qui gli ucraini subiscono abusi, patiscono il freddo e la fame. E prendono la tubercolosi.

“Quando hanno scoperto che tra noi c’erano dei tisici, li hanno trasferiti in un’altra cella. Per loro due soli. Noi siamo stati visitati, e come profilassi ci hanno somministrato cinque compresse al giorno per otto mesi”.

Gli ucraini subivano maltrattamenti quotidiani. Finire in isolamento, tuttavia, era di gran lunga peggio.

“Grazie a Dio, io non sono mai finito in isolamento, ma ho condiviso la cella con chi ci era stato. Una paura tremenda. Potevano lasciarti in isolamento anche due o tre mesi. Solo per farlo parlare, per fargli vuotare il sacco… In una cella con diciassette prigionieri, quando vengono a picchiare, a un paio può anche andare bene … magari si beccano giusto qualche calcio,. Quando sei da solo, invece, le buschi ogni santo giorno”.

Roman ci ha raccontato di aver visto un civile perdere la ragione per le percosse e la fame. La ‘dieta federale russa’ ha, invece, mandato in cancrena i piedi a un altro compagno di cella.

Roman ha trascorso nove mesi in quelle condizioni per essere poi ulteriormente allontanato dalla sua Patria.

Mordovia

Posto nuovo, regole vecchie. La rinnovata speranza in uno scambio finisce con un nuovo ‘passaggio di mano’ e con altri 11 mesi di botte.

“Non facevano che dirci: “Bastardi, assassini volete andarvene in Europa? Eccovela l’Europa” e giù a picchiarci. Erano botte per qualsiasi cosa. Ti eri appoggiato al letto invece di stare in piedi durante il giorno…? Botte. Una guardia era di cattivo umore…? Botte. Entravano dicendo: “Sceglietene cinque e portateli fuori”. Così fanno. E quei cinque venivano picchiati direttamente nel corridoio (per evitare le telecamere) o fuori nel cortile. Dove ti aspettano i taser, i manganelli, e il solito: “Su, balla, cantaci una canzone…”. E uno canta mentre un altro lo pungola col taser. E siccome il prigioniero è bello alto mentre l’agente è sul metro e mezzo, per arrivarci meglio sale su una panca, prende la rincorsa e colpisce il malcapitato con una ginocchiata alla testa. A me hanno rotto due costole. Per un mese non ho potuto né respirare né dormire, nulla”.

La tortura con le scosse elettriche non si ferma nemmeno lì. A Roman è toccata tre volte, e fino a perdere i sensi.

“Mi fanno stare faccia a terra sulle braccia tese, uno mi ordina di fare i piegamenti. Li faccio e quello mi si siede sopra e comincia a punzecchiarmi ovunque col taser: sui talloni, sulle piante dei piedi, sui muscoli, sulle mani, sul collo, in testa, ovunque. A un certo punto il suo superiore ha persino provato a fermarlo: “Basta così o gli farai venire un infarto…”.

I prigionieri si ammalavano per la pessima qualità dell’acqua. Poiché non era consentito lavarsi con le ciabatte, molti prendevano infezioni micotiche. Neanche lavarsi i denti era permesso.

— Non mi sono lavato i denti per due anni. Ce lo impedivano dicendo che “gli spazzolini erano in ferie”, oppure “in malattia”. Tutti i giorni così. Sapevo che gli spazzolini erano appesi dietro la porta, e invece o erano ‘in ferie’ o ‘in riparazione’, tutto pur di non darceli”.

Regione di Rostov

A fine gennaio del 2024 Roman è pronto per uno scambio di prigionieri. Ma l’aereo con a bordo, si presume, i prigionieri di guerra ucraini precipita. E lo scambio non si fa più. Gli ucraini vengono trasferiti in una colonia penale a Kamensk-Šachtinskij, nella regione di Rostov. L’ennesimo ‘passaggio di mano’.

“Ci hanno fatto spogliare nudi in mezzo alla strada, nonostante ci fossero dieci gradi sotto zero e la neve. Ti ritrovi nudo, senza più vestiti, tutti buttati in un mucchio, perfino i calzini. Entri… e se hai dei tatuaggi, gli unici punti del tuo corpo che verranno risparmiati saranno quelli dove non li hai”.

È solo lì, tuttavia, alla vigilia dello scambio che non avverrà mai, che i prigionieri vengono finalmente sfamati come si deve.

“Una scodella da mezzo litro di kaša! Mai visto niente del genere in due anni! Piena colma! Ed era mangiabile, per non dire gustosa!”.

Nei sei giorni che precedono lo scambio, gli ucraini mangiano decorosamente. Alla fine da regione di Rostov li portano verso Sumy, al confine con l’Ucraina.

“Eravamo ormai al nono trasferimento. Ennesima colonia penale, pensavo tra me e me, ormai deciso a non cedere più a false speranze. Mi bendano. Però non ci insultano, quando si rivolgono a noi, ci chiamano “ragazzi”. Siamo sbalorditi. Dopo due anni non eravamo più abituati ad appellativi del genere. Per gli altri eravamo sempre stati qualunque cosa, fuorché soldati, ragazzi, esseri umani”.


In base a quanto riportato dal Centro di Coordinamento ucraino per il Trattamento dei Prigionieri di Guerra, è acclarato che più di ottomila ucraini, fra militari e civili, sono ancora prigionieri dei russi. Il luogo di detenzione di queste persone è certo. Altre decine di migliaia di ucraini, però, risultano ancora dispersi. Secondo l’ultimo rapporto dell’ONU, la Russia continua a violare sistematicamente il diritto umanitario internazionale in materia di trattamento dei prigionieri: “Le testimonianze dei sopravvissuti documentano tutta la spietatezza e la crudeltà di tali comportamenti, causa di gravi dolori e sofferenze per le vittime durante la loro prolungata detenzione. Il tutto è stato perpetrato con palese disprezzo per la dignità umana, causando traumi fisici e psichici a lungo termine”.

Ricordiamo che il Gruppo per la difesa dei diritti umani di Charkiv ha istituito una linea telefonica diretta per le persone scomparse. Se avete parenti dispersi o siete a conoscenza di prigionieri di guerra o di civili detenuti, o comunque scomparsi nel territorio occupato, chiamate il numero 0 800 20 24 02 (gratuito).

Non possiamo garantire che riusciremo a trovare il luogo di detenzione dei vostri cari. Tuttavia, in questi anni i nostri esperti sono riusciti a localizzare oltre il 30% delle persone che ci erano state segnalate.

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