‘In ogni cortile ci sono tombe di civili uccisi’, Jurij Ljapkalo, Mariupol’
Quando è iniziata l’invasione su vasta scala, vivevo con mio figlio Glib di tre anni, la mia ragazza e la sua figlia quindicenne. Nei primi giorni di guerra non capivamo cosa stesse succedendo. Nessuno ci credeva, dicevano che era impossibile. Sulla riva sinistra della città erano già cominciati gli scontri, mentre dalla nostra parte arrivavano solo gli echi.
Poi, però, abbiamo iniziato ad accorgerci che la gente faceva i bagagli e scappava. Da un giorno all’altro, anzi da un’ora all’altra, le cannonate diventavano sempre più vicine ma non avevamo un posto dove andare a ripararci, perché di piani di evacuazione non si parlava, non si sapeva niente. Ben presto hanno tagliato l’acqua, le comunicazioni, il gas, l’elettricità. Siamo tornati all’età della pietra. Sono iniziati i saccheggi nei negozi, la gente portava via tutto. Tutto quello che poteva, lo portava via. Stavamo al terzo piano, ma non scendevamo mai nello scantinato, non volevamo morire sotto terra.
In casa la temperatura era bassissima, si moriva di freddo. Cucinavamo con i vicini in cortile, sul fuoco. Ci capitava di ritrovarci sotto i colpi dell’artiglieria. Una volta è scoppiata una cannonata forte, tutti si sono nascosti ma io sono corso fuori per togliere la zuppa dal fuoco. Dovevo dar da mangiare a mio figlio, e altro cibo non ce n’era.
Poi, quando la situazione è peggiorata, e il nostro edificio letteralmente traballava per i continui bombardamenti pesanti, abbiamo deciso di andarcene in un posto più tranquillo. Lì viveva mia zia con mia nonna, mio cugino e il mio figlioccio. In quell’edificio una famiglia aveva lasciato l’appartamento, e così ci siamo stabiliti lì.
Ogni giorno, come si suol dire, uscivamo a caccia: cercavamo viveri, di ogni tipo. Non avevamo acqua, e il pozzo era a un paio di chilometri nella zona residenziale. Quando andavamo a prendere l’acqua, era un biglietto di sola andata. Ci facevamo strada circondati da cadaveri di civili. Erano morti durante i bombardamenti. E nemmeno noi sapevamo se saremmo tornati indietro oppure no. Quando non c’era proprio più niente da mangiare, mangiavamo i piccioni. Almeno era carne, ci facevamo il brodo... E se pioveva, raccoglievamo l’acqua piovana.
Un giorno io e mio cugino siamo andati al mercato “Avtostancija-2”, dove tutto quello che si poteva prendere era già stato preso da altra gente, ma io sono riuscito a rimediare qualche mela, un pacchetto di tè, calze per mio figlio e salviette umidificate, che erano essenziali perché non c’era modo di lavarsi. E mentre rovistavamo tra le cose al mercato, all’improvviso sono spuntati due “orchi”, cioè due militari russi.
“Ehi voi, sciacalli, tutti in fila!” hanno detto sparando una raffica di mitra in aria. Ci siamo disposti tutti in fila, hanno iniziato a controllare i documenti, ma io non ne avevo con me.
Uno di loro ha minacciato di uccidermi e mi ha sparato una raffica di mitra vicino ai piedi. Poi ci hanno fatti inginocchiare, ci hanno perquisiti, picchiati e quindi lasciati andare. Mentre tornavamo a casa, siamo capitati sotto le bombe.
Col passare del tempo, cibo non se ne trovava da nessuna parte, i piccioni non si vedevano più. Avevamo anche un cane, ma non avremmo potuto mangiarlo perché era il nostro. Poi abbiamo deciso di cercare altrove qualcosa da mettere sotto i denti Abbiamo saputo che vicino al supermercato “Metro” i russi distribuivano aiuti umanitari, o così si diceva. Abbiamo deciso di andarci, per non morire di fame. Abbiamo camminato per circa quattro ore, tutt’intorno c’era solo devastazione, moltissimi cadaveri, tombe in ogni cortile... Siamo entrati nel territorio occupato dai russi. A proposito, giravano un sacco di voci, dicevano che i soldati ucraini sparavano ai civili. Non era così! Io sono passato accanto a loro, erano del battaglione Azov, non hanno detto niente né toccato nessuno.
Alla fine siamo arrivati al “Metro”, quella parte della città era distrutta fino alle fondamenta. Anni fa sono stato a Prip’’jat’, vicino a Černobyl’, che in confronto alla Mariupol’ distrutta è una città fiorente. Intorno a noi c’era l’orrore: i cadaveri non li portava via nessuno, c’erano moltissimi mezzi militari fatti a pezzi. Già, è la guerra...
Quando siamo arrivati al “Metro”, ci hanno detto che quel giorno gli aiuti umanitari non c’erano. Ci siamo tenuti la fame, e in più bisognava dormire da qualche parte perché non potevamo più tornare a casa, erano tre-quattro ore di cammino e con noi c’era la nonna, che non avrebbe retto.
Nei dintorni c’erano dei magazzini di generi alimentari, ci siamo andati per passarci la notte, ci siamo infilati in una bugigattolo e d’un tratto abbiamo visto a venti metri da noi un cadavere “seduto”. Be’, che potevamo farci?
Il mattino dopo ci siamo svegliati, siamo tornati al “Metro” e ci hanno detto che anche quel giorno non ci sarebbero stati gli aiuti umanitari. Siamo tornati indietro.
Voglio dire una cosa in particolare sull’aviazione. Era un incubo. Anche dopo essercene andati da Mariupol’, mio figlio, sentendo un tuono in cielo, si metteva a correre per cercare rifugio. Erano bombardamenti terribili, sganciavano bombe dappertutto, colpivano le zone abitate dove non c’era obiettivi militari né infrastrutture. Era spaventoso.
Poi abbiamo saputo che dalla città partivano degli autobus per Taganrog. Ci siamo andati, siamo saliti sull’autobus in modo ordinato, c’era una ressa tremenda. Al primo posto di blocco hanno fatto scendere tutti gli uomini, ci hanno messi in fila. Ognuno veniva portato in un caravan per essere interrogato. Io sono entrato per ultimo, perché il mio bambino continuava a saltar giù dall’autobus e a gridare: “Papà, papà!”.
Alla fine, mi hanno controllato il telefono, mi hanno chiesto chi fosse il bambino che era con me. Poi non gli è piaciuto che il mio telefono fosse troppo pulito e hanno cominciato con le minacce, soprattutto di morte. Mi hanno picchiato e lasciato andare. Durante il viaggio da Mariupol’, in un paesino abbiamo visto un lampione acceso e il mio bambino mi ha chiesto: “Papà, cos’è?”. Immaginate quanto ci eravamo disabituati alla luce.
Alla frontiera siamo rimasti fermi tutta la notte. Le persone dall’aria sospetta venivano convocate separatamente per essere passate al setaccio. Ma è andato tutto bene, siamo arrivati a Taganrog, lì sono venuti a prenderci degli amici che ci hanno portati a Sebastopoli. E da Sebastopoli siamo partiti per la Repubblica Ceca.
Ricordiamo che il 28 agosto l’iniziativa per la difesa dei diritti umani T4P (Tribunale per Putin) ha presentato un rapporto alla Corte penale internazionale in cui si documenta il genocidio commesso dalla Russia nella Mariupol’ ucraina. Il numero di vittime causato dall’occupazione russa di Mariupol’ viene stimato dagli autori di tale rapporto intorno alle 100.000 persone.