L’uomo che ha portato fuori da Mariupol a piedi 117 persone: “Gli amici mi chiamano Mosè”
Ci racconti, per favore, il primo giorno di guerra a Mariupol. Come l’ha vissuto?
Una giornata frenetica. Mia moglie era nel panico perché avevano cominciato a sparare, voleva andar via. Stentavamo a credere che sarebbe accaduto qualcosa, era inimmaginabile che nel ventunesimo secolo sarebbero stati presi di mira dei quartieri residenziali. Era impossibile immaginarlo. Ci pareva che si sarebbe trattato soltanto qualche sparatoria e poi tutto si sarebbe risolto, e se ne sarebbero tornati da dove erano venuti per iniziare le trattative. Così fu il nostro primo giorno: non credevamo a quel che succedeva attorno a noi.
Quando vi siete resi conto che non sarebbe finito presto e che bisognava partire?
Divenne chiaro verso il 26-27 circa. Ma non c’era più la possibilità di andare via. Non avevo una macchina, ma anche se l’avessi avuta, non so se avrei rischiato di partire sapendo che c’è una colonna di mezzi militari degli invasori sulla strada per Mariupol. Probabilmente, no. Quelli che sono partiti il 27-29 hanno rischiato molto.
In quale quartiere abitava e che cosa stava succedendo lì?
Quartiere Kalmius, vicino a Neptun, quelli di Mariupol conoscono la zona. Vicino alla fabbrica di Illich. I primi giorni furono relativamente tranquilli rispetto a quel che è successo dopo. Poi a marzo cominciarono a sparare su di noi direttamente. Fino a quel momento sentivamo gli spari che provenivano dalla zona di Sartana, sentivamo gli spari dal 23° micro-quartiere.
C’era un rumore forte, avevamo paura, ma ora posso ripensarci e dire: “era roba da poco”. Quando cominciarono a sparare nella nostra direzione, ci rendemmo conto di quanto eravamo messi male.
Ci racconti della vita a Mariupol nei tempi di guerra.
Alle prime avevamo semplicemente paura perché sparavano. Scappavamo di corsa per nasconderci nel rifugio improvvisato che abbiamo creato, perché il municipio non ha preparato alcun tipo di rifugio. Poi sono scomparsi l’elettricità, l’acqua e il gas. Ci ha aiutato molto il fatto che da anni guardavamo film sulle catastrofi. O forse mi ha aiutato l’aver studiato bene a scuola, dove ci insegnavano la sopravvivenza, il corso introduttivo al servizio militare per ragazzi, ecc. Riuscivamo a procurarci la legna e l’acqua, scioglievamo la neve, raccoglievamo l’acqua piovana, ci procuravamo delle provviste. Era molto importante avere rapporti con gli altri perché la comunicazione vale più del danaro, che ormai non aveva più alcuna importanza. Nel rifugio c’erano più di 280 persone. Ci aiutavamo a vicenda, così siamo riusciti a sopravvivere. Anche adesso c’è gente che cerca di sopravvivere. Vengono salvati a poco a poco, ma sono ancora in 150-140 mila a vivere così.
Avete interagito in qualche modo coi militari?
Nel nostro quartiere c’era un ospedale militare. La prima settimana andavo da loro nel tempo libero per aiutare a proteggere le finestre dalle schegge. Mettevamo dei sacchi per rinforzare le finestre e permettere ai medici di lavorare, perché salvavano non solo i militari ma anche i civili feriti nei bombardamenti. Ero presente quando hanno portato della gente, dopo che è stata presa di mira via Kirov dai razzi o dalle bombe.
Un giorno mi trovano in ospedale e stavamo riempiendo i sacchi, li legavamo e fissavamo alle finestre ed è arrivato un vecchio che ha detto: “Ragazzi, mi sembra di avere qualcosa qui nella coscia”. Arrivano i medici ed ecco che ha una scheggia nella coscia.
E poi, circa due settimane fa, ho visto un video dove dei giornalisti russi, in piedi davanti a una finestra dell’ospedale che avevo sistemato con i sacchi, raccontavano che dentro c’era il quartier generale del battaglione Azov. “Abbiamo cacciato via i militari, sparavano da dentro”. Ho pensato: ma va! Saperlo prima, se non me ne fossi andato avrei visto anche i militari dentro…” Solo che invece di sparare stavano salvando delle vite umane. Ma prima della cosiddetta “liberazione”, so che molto velocemente, intorno il 15 o il 18 di [marzo], l’ospedale è stato trasferito interamente da lì. Credo che si siano spostati nel territorio della fabbrica, nel rifugio antiaereo perché vedo chi cercano tra i militari e i medici, e sono persone con le quali ho parlato a marzo. Mi rattrista molto vedere che le persone che prima davano aiuto ora vengono ricercate. Hanno salvato molte persone, ma ora ci sarà qualcuno a salvare loro?
Mi sono rivolto all’ufficio rionale di polizia di Kalmius. Aiutavano a cercare le persone, per quanto fosse possibile. Ormai a quel punto più che cercare i sopravvissuti, portavano via i cadaveri. I militari hanno aiutato con le medicine, quando ne avevamo un gran bisogno. Ci hanno dato quel che hanno potuto.
Certi notiziari che guardo ci raccontano che bisogna prendere bottiglie Molotov e lanciarle sui carri armati ecc., ma noi non abbiamo nemmeno visto le macchine militari e nemmeno i soldati dalla Russia o dalla Repubblica Popolare di Doneck. Eravamo semplicemente presi di mira da colpi di artiglieria, da bombe e mortai.
Avremmo visto dei militari solo quando saremmo usciti dalla città. Fino ad allora il nostro quartiere era semplicemente straziato, distrutto dall’artiglieria. Vicino al nostro rifugio ci sono cinque buche lasciate dalle bombe aeree. Perché solo cinque, e non sei? Perché la sesta ha colpito una sottostazione elettrica che è stata polverizzata. Una sottostazione alta tre metri è stata semplicemente demolita, è rimasta solo una buca.
Era circa il 13-16 di marzo, a quel punto le date non avevano più importanza. Avevamo un solo obiettivo: sopravvivere. Siamo sopravvissuti oggi? Bene! Bisogna sopravvivere anche domani. Ci siamo prefissati il compito di dare un pasto caldo ai bambini, procurare dell’acqua, controllare che nessuno metta delle spie sul nostro rifugio e che dei saccheggiatori non rubino il carburante dalle nostre macchine. Dal 13 e al 16 furono giornate di fuoco, per tre giorni spararono proprio dove si trovava il nostro rifugio, forse ne avevano captato la geo-localizzazione. Dopo che delle persone sono passate da noi per caricare i telefoni, hanno cominciato a centrarci.
Lei sa in che condizioni sono ora il vostro palazzo e le case attorno?
È un po’ complicato parlare dei palazzi, non so dirle nulla perché finora nessuno ha contatti con la città. Kuleba ha detto: “Ormai Mariupol non c’è più, è stata rasa al suolo”. Ma ci sono ancora più di 100 mila persone, capisce? Sono vivi, quindi Mariupol non è stata distrutta. La stanno distruggendo, e bisogna salvare la gente! Non importa se ci sono le case, l’importante è che sia rimasta la gente, gente viva che non può partire, perché glielo vietano e li disinformano.
A proposito degli ostacoli alla partenza. Che cosa le aveva impedito di andare via da Mariupol?
L’assenza di informazione e l’assenza di corridoi sicuri. Per me anche la mancanza di un mezzo di traporto. Ho tre figli, e capivo che non potevo esporli a tale pericolo. Abbiamo aspettato che venisse un po’ di caldo per evitare di assiderarci di notte durante il cammino. Abbiamo aspettato anche che il fronte di bombardamento si spostasse anche un po’ lontano dal nostro rifugio, di modo da vedere che la strada che dovevamo percorrere non fosse sotto tiro come tutto il resto. Conosco gente che è stata affiancata da un bus, e gli hanno detto: “Andiamo a Zaporizhzhia!”. Sono saliti e poi si sono trovati a Doneck.”
“Conosco gente che veniva affiancata da un bus, e dicevano: ‘Andiamo a Zaporizhzhia!’. Loro salivano e poi si ritrovavano a Doneck.”
Ci sono varie segnalazioni sul fatto che i russi portano in massa gli abitanti di Mariupol in territorio russo o in territori temporaneamente occupati dell’Ucraina. Vi è stato proposto di andarci? Conoscete gente che ha acconsentito?
Sì, ci è stato proposto in modo insistente e accattivante: “Andate a Rostov, a Doneck, ecco l’autobus”. È successo già a Nikolskoe e a Mangush. Dicevano: “Lì vi aspettano, ci saranno pasti caldi, alloggi, lavoro, andrà tutto bene.” A dirlo erano dei “simpatici commissari politici”, così possiamo definirli. Erano degli psicologi ben preparati. Quanto eravamo a Nikolskoe, si presentavano tutti così carini, questi “liberatori”: “Vi daremo una mano, avrete da mangiare”.
Mi veniva da rispondere, che prima avevamo cibo e casa, non avevamo bisogno di andare da nessuna parte e viaggiavamo quando ci pareva. Ma a Mangush mi sono reso conto che a loro mancavano collaboratori: cercavano di ingaggiare e addestrare rapidamente la gente che convincerà gli altri a trasferirsi sul territorio della Repubblica di Doneck o della Russia.
Una mattina arrivò un militare e ci dice: “Beh, quanto pensate di rimanere all’asilo nido?!” Abbiamo risposto: “Solo una notte, per poi proseguire verso l’Ucraina, magari fino a Zaporizhzhia”. Era deluso, il suo piano non aveva funzionato. Allora abbiamo capito tutto. Lui non se lo aspettava. L’avevano preparato a mettere in ingabbia quelli che vi dormivano da 2, 3 o 4 notti, mentre si stavano riprendendo.
Il 22 siamo riusciti a raggiungere Mangush, proprio il giorno in cui loro avevano rubato un bus di un convoglio umanitario che viaggiava da Mariupol a Zaporizhzhia. La sera erano entrati correndo: “Chi vuole andare a Doneck? Avete ancora una possibilità di partire!” Sono uscito per vedere. Pensavo: “Notte, bus, che guaio stanno combinando?” Ho guardato e mi sono accorto che era un mezzo di trasporto municipale di Zaporizhzhia. Allora ho chiamato i volontari di Zaporizhzhia e mi hanno detto: “Già, Oleksii, c’era un nostro convoglio, ma ci hanno portati via i bus”. Gli ho raccontato che i loro bus andranno verso Doneck. Quando sono uscito, mi hanno dato, per così dire, l’ultima possibilità: partire o restare. Sapevo cosa avrebbero fatto dopo.
Lei è una persona vivace e in Telegram presenta come conduttore di eventi. Ci racconti per favore la sua vita prima dell’inizio dell’intervento militare, e quali sono i suoi progetti ora?
Prima dell’invasione la mia vita era molto bella. Per quest’anno avevo tanti progetti. Oltre a essere conduttore di feste, sono reporter di gare sportive nazionali e internazionali. Qui da noi a Mariupol’ facevo reportage di gare di hockey e anche di campionati di arrampicata, canottaggio in mare, pugilato. Prevedevo di occuparmi anche di basketball. Inoltre, sono uno speaker internazionale e maestro dei giochi, insegno ai conduttori e agli animatori come organizzare le feste. Oltre alle feste mi occupavo dei bambini, collaboravo e collaboro tuttora con la fondazione internazionale “Le ali giallo-azzurre”. Abbiamo già aiutato tanti profughi. I miei prossimi progetti sono di assistere i profughi e di collaborare con la fondazione. Grazie alla professione che pratico da più di 30 anni, sono in contatto con colleghi di Chernavtsy, che aspettano da anni che io li vada a trovare. Ora ci sono andato e abbiamo deciso di scrivere un paio di canzoni per i bimbi con difficoltà di sviluppo, siamo immersi in questo processo creativo. Scriviamo anche dei testi per gli animatori che stanno ancora lavorando localmente. Siamo in contatto con gli amici volontari, ci sosteniamo a vicenda, socializziamo, perché è la socializzazione che salva la gente. È palese quanto sia importante il mutuo aiuto che gli ucraini si stanno dando. Ora sono a Uzhhorod, ospite di persone che non conoscevo prima, amici degli amici. È bello che esistano persone così.
Ci ha già raccontato un po’ della fuga dalla città. Ci racconti meglio, com’è andata?
Il 20 marzo abbiamo visto che la situazione si era un po’ calmata e il tempo era diventato più caldo. Il 21 io e un ragazzo del nostro rifugio siamo usciti in ricognizione per controllare due zone del quartiere. Ho accertato che stavano ancora sparando, ma un po’ più lontano da noi. Abbiamo radunato chi era interessato a partire fra la gente del rifugio. Ho annunciato che la mattina dopo saremmo partiti alle ore 8, chi voleva, poteva prepararsi, portando solo lo stretto necessario. Ciascuno ha portato il suo bagaglio. Siamo andati a passo spedito, il nostro compito era arrivare almeno fino a Nikolskii o Mangush, perché credevamo che da lì partissero i bus. L’abbiamo saputo perché una rappresentante del governo, il cui cognome comincia con “V” e finisce con “ereschuk” ogni giorno annunciava che dal 15 marzo ogni giorno da Mangush partivano i bus per Berdiansk. Quando siamo arrivati a piedi a Mangush, ho chiesto alla gente del posto e hanno risposto: “Lesha, dal 24 febbraio non c’è stato neppure un bus ufficiale da Mangush a Berdiansk”.
Abbiamo fatto 15 km a piedi da Mangush a Komyshevato, e siamo riusciti ad arrivare giusto 10 minuti prima della chiusura del negozio. Era una piccola bottega indispensabile per il nostro viaggio. Siamo entrati di corsa a prendere acqua e pane, non ne avevamo scorte perché non sapevamo che la camminata sarebbe stata così lunga. Ho contattato il capo di questo villaggio. Mi ha detto: “non ho nulla, vi posso sistemare al circolo, ma non c’è riscaldamento”. Abbiamo risposto: “L’importante è non dormre all’aperto”. A quel punto venne fuori una donna, la responsabile del negozio, e ci chiese di dove siamo. Abbiamo risposto: “di Mariupol”. Lei fa: “al diavolo il circolo, ne prendo 12 io, Liuda se ne prende altri 5”. Insomma, ci hanno trovato alloggio nelle famiglie di Komyshevato, al caldo. Per la prima volta in un mese abbiamo fatto una doccia. Insomma, ora considero Komyshevato la mia seconda famiglia. La mattina a tutti noi hanno dato un passaggio in macchina per andare avanti, fino a Demianovka. Il 24 marzo ci hanno portato via da lì, seguendo dei sentieri da partigiani, pieni di buche, fino a Zaporizhzhia. Poi abbiamo attraversato 17 o 18 posti di blocco di russi e di militanti della Repubblica di Doneck. Poi abbiamo raggiunto l’Ucraina, Zaporizhzhia. Li ci hanno assegnato un alloggio in un asilo nido, e la mattina ci hanno fatto prendere il treno. Così il nostro gruppo ha avuto un passaggio e ci hanno sistemati nello stesso vagone.
“Attraversando 15 posti di blocco, abbiamo visto tutta la Russia: c’erano gli udmurti, i kazaki, i ceceni. Tutto lo spettro fino al Saсhalin.”
Siamo partiti in 117, abbiamo raggiunto l’Ucraina in 70. Alcune persone sono andate a Rostov, in Russia, perché avevano dei parenti o amici. Era loro diritto. Questa è la differenza fra l’Ucraina e quelli che ci hanno invaso. Noi abbiamo la possibilità di scelta: decidiamo noi cosa fare e come fare. E in ogni circostanza restiamo umani.
117 persone in cammino: com’è? Ho fatto qualche passeggiata in montagna, ma al massimo c’erano 20 persone. Come si fa a scarpinare in 117 per una distanza del genere?
Quando si cammina in colonna, con uno zaino, si sta bene. Qui invece avevamo persone con zaini, borse, trasportini dei gatti, bambini piccoli, che a loro turno avevano zaini e borse. Era una lunga processione. I miei amici, quando hanno scoperto che sono vivo, mi hanno ribattezzato da “Simonov” in “Simosè”. “Tu conduci la gente attraverso il deserto di asfalto”.
Quando camminavamo nel silenzio, come alla partenza da Mangush, tutto andava bene. Invece quando eravamo accompagnati dal rombo delle cannonate, avevamo molta paura. Se dicevo “sparano da lontano, possiamo rallentare il passo”, tutti rispondevano “No-no-no”, sia i vecchi, sia i giovani. In cammino con noi c’erano persone dai 5 ai 70 anni.
Come reagivano i militari al passaggio della colonna, cosa dicevano ai posti di blocco?
Vede, a marzo i nostri “liberatori” cercavano di comportarsi da “angeli di bianco vestiti”. Ci stavano liberando dalle nostre case, dalle nostre vite. Per non provocare, annuivano: “passate pure, dovete andare di là”. Conoscevamo la città anche senza di loro. So che erano più aggressivi, ma quando passavamo noi, volevano sembrare buoni. “Vi aiuteremo, di qua di là“, noi annuivamo: “Ma certo”. Non avevamo tempo per discutere, a che pro? Cosa potevano dirci che non sapessimo già? Nulla. Cosa ci potevano fare? Hanno fatto quel che potevano, ci hanno lasciati senza radici, senza vita. Ora dobbiamo cominciare tutto da zero. Ed è molto difficile.
Quando passavamo i posti di blocco, era chiara la differenza fra i russi e quelli della Repubblica di Doneck. Attraversando 15 posti di blocco russi, abbiamo visto tutta la Russia. C’erano gli udmurti, i kazaki, i ceceni, tutto lo spettro dal Sachalin fino a, forse, Jacuzia. Uno degli jakuti era molto spiritoso, e poi c’erano quelli della regione di Smolensk. Eseguivano tutti gli ordini ricevuti.
Controllavano gli uomini, osservavano i tatuaggi, cercavano chissà quali informazioni nei cellulari, guardavano che sulle dita non ci fossero calli prodotti da armi da fuoco. Almeno era chiaro che erano militari, che avevano fatto un qualche giuramento al loro stato. Agli ultimi 2 o 3 posti di blocco c’erano quelli della Repubblica di Doneck, ed erano veramente pessimi. Degli avanzi di galera armati, con l’odio negli occhi. In uno dei posti, visto che avevo un callo da spina, uno di loro mi stava per fucilare, dicendo “È un callo da arma da fuoco!” Ho risposto: “Tagliavo la legna!” Ha fatto partire una raffica di mitra sopra la mia testa. Sono veramente grato ai ragazzi che mi hanno portato via. Cercavamo di distrarli con sigarette, regalini. Con loro bisogna stare attenti: sguardo abbassato, rispondere solo sì o no, e basta. Altrimenti si scatena la rabbia, l’aggressività, diventa pericoloso per te e per chi ti accompagna.
Quindi ubbidivamo ai nostri che si stavano evacuando. Se loro dicevano: “restiamo zitti”, vuol dire che bisogna star zitti. Quelli che ci evacuavano rischiavano molto. Molti volontari sono stati fatti prigionieri e rilasciati dopo qualche settimana. Venivano presi non per colpa loro, ma perché i loro assistiti si comportavano in modo provocatorio o facevano i saputelli. Di sodati ce n’erano di tutti i tipi. Ce n’erano alcuni che all’inizio erano mal informati e invece di Mariupol sono arrivati a Melitopol con i mezzi militari. Questo ha dato ai nostri un paio di giorni per riorganizzare e preparare una qualche difesa in città. Quando ho visto che il 27-28 di febbraio i mezzi militari russi sono entrati a Melitopol mi sono detto: “Ma cosa ci fanno?” Poi degli amici di Melitopol mi hanno scritto: “Sono arrivati i mezzi, hanno attraversato la città e se ne sono andati”. Allora ho capito, che come Gazmanov, questi confondono le due città. Quando quel saltimbanco era venuto a cantare qui da noi negli anni 2000 per il concerto del Giorno della città, ci aveva salutato dicendo “Buon giorno, Melitopol!”.
Ci racconti dell’atteggiamento sui posti di blocco: è stato testimone di omicidi, torture o arresti dei civili ai posti di blocco?
Sì, sono stato testimone di un arresto. Quando passava la nostra colonna, hanno portato via uno degli uomini dopo aver trovato nel suo telefonino corrispondenza con dei militari. Non so quale sia stato il destino di quell’uomo.
Conosce delle persone uccise a Mariupol? Morti nei bombardamenti, per le pallottole dei cecchini, o per attacchi diretti dei militari?
Certamente. Ogni giorno arrivano informazioni, ogni giorno leggo con il cuore che si ferma nel petto i cognomi delle persone che conosco. È molto difficile perdere gli amici. Sono fortunato: i miei cari sono vivi. Fra le persone che erano con me, una aveva perso il padre nel cortile di casa sua. Era arrivato un missile ed era finita così. Di solito quell’uomo attraversava mezza città per andare a trovare le proprie figlie. Loro gli dicevano: “Resta nel nostro rifugio”, e lui rispondeva: “No, ho la mia casetta, voglio stare lì”. È molto difficile.
Si poteva fare qualcosa per prevenire questa situazione a Mariupol, almeno in parte?
Assolutamente sì!
Che cosa esattamente?
Almeno non darsi tante arie e prepararsi, invece di dire: “faremo tutto, nessuno ci toccherà”! Invece di ingigantire la propria importanza e farsi belli, bisognava semplicemente prepararsi. Le fabbriche, che si sono preparate, hanno creato scorte di conserve in scatola, hanno preparato un rifugio. Le fabbriche capivano che, anche se non era arrivata la guerra, un rifugio avrebbe potuto tornare utile. Così avevano preparato razioni di cibo e un po’ d’acqua. La gente vive ancora oggi con le scorte fatte allora. Vi immaginate, se il rifugio fosse sguarnito? Il giorno quando è iniziato tutto, sarebbe arrivata la gente ma il rifugio avrebbe potuto essere allagato e nessuno forse avrebbe avuto la chiave. Atro che “i rifugi sono pronti, venite”! Riconoscere uno di Mariupol in altre città è molto facile: quando suona la sirena, non reagiscono. Sapete perché? Da noi non c’era la sirena.
Che cosa prova ora nei confronti dei russi?
Assolutamente nulla. Cercate di capire: i russi e i soldati non sono la stessa cosa. I cittadini russi e il loro governo sono due cose distinte. Non si può sputare odio, è controproducente. C’è chi ha subìto il lavaggio del cervello e ora grida “uccideteli tutti!” Fatico a chiamarli “russi”, sono a malapena umani. Se uno inneggia all’uccisione dei bambini non è più un umano. Non importa se vive in Russia, in Bangladesh o in Somalia. Per quanto riguarda i russi, non hanno scelta. Molti di loro sono privi di coscienza critica, molti non si rendono ancora conto di cosa stia succedendo. Perciò, coloro che imbracciano le armi e vengono da noi a fare guerra devono essere distrutti. Senza ombra di dubbio. Invece quella gente che vive nel proprio piccolo mondo, beh, sono uguali dappertutto. Non ho alcun atteggiamento verso i russi, ahimè. È una generazione cancellata, un paese cancellato dalla mappa dei paesi dove vorrei andare. Anche se pure lì ci sono delle persone normali, che cercano di dire qualcosa. C’è chi ha paura e chi no. Ma sono pochissimi, è più facile accendere la TV ed ascoltare quel che viene detto.